Sul futuro della chimica una pericolosa indifferenza

07.01.2010

di Guido Melis

Che ne sarà della chimica in Sardegna? Il Natale difficilissimo dei 138 della Vinyls, a Porto Torres, è passato nell’indifferenza più o meno generale. Certo: solidarietà, dichiarazioni ufficiali. Ma intanto, mentre 11 ragazzi stanno per perdere il contratto di apprendistato, è possibile che gli impianti si fermino per sempre. Che gli accordi sottoscritti al Ministero dello sviluppo economico e al Ministero del lavoro risultino poco meno che carta straccia. Che l’intervento della Regione sarda, sub judice davanti all’Unione europea, non sortisca effetto alcuno. Che una filiera produttiva vitale per l’economia nazionale, quella dei cloroderivati (Assemini-Porto Torres-Marghera-Ravenna), letteralmente sparisca. Che l’economia del Nord Sardegna subisca un colpo mortale.
 C’è in tutto questo qualcosa di sconcertante: che nessuno, nella classe dirigente nazionale o locale, si ponga il problema se un paese come l’Italia possa sopravvivere nel dopo-crisi senza una seria, moderna, competitiva industria chimica di base. Il Tremonti-pensiero dice che la crisi sta passando, che noi ne usciremo senza traumi, che tutto va bene madama la marchesa. Non è così. La crisi, intanto, ben lungi dall’essere passata, produrrà circa 2 milioni di disoccupati. Poi – quand’anche sarà passata – lascerà dietro di sé un paesaggio industriale profondamente trasformato.
 Lo sappiamo o no che nel dopo-crisi le famose tigri asiatiche (parlo della Cina, dell’India, della Corea del Sud) conquisteranno l’arena mondiale sottoponendo i paesi europei ad una spietata concorrenza? Possiamo dimenticarci che su interi settori produttivi dovremo fronteggiare una vera e propria aggressione?
 Gli altri paesi industrializzati lo sanno. Sanno che per resistere bisognerà investire di più in ricerca e puntare su prodotti più sofisticati. Insomma più qualità, visto che sulla quantità sarà difficile competere. Più specializzazione. E più brevetti.
 E’ esattamente il contrario di quello che l’Italia sta facendo. Per qualche decennio ci siamo trastullati nel mito del made in Italy, togliendo soldi alla ricerca di base e chiudendo interi comparti nei quali avevamo il primato: l’elettronica, l’informatica, l’aeronautica civile, la radiofonia. Abbiamo smembrato la grande industria, cioè i cavalli da tiro dello sviluppo, puntando tutte le carte sulla piccola industria. Ma la piccola industria ha senso se lavora spalla a spalla con l’industria di grandi proporzioni. Altrimenti è solo una presenza di nicchia. “La scomparsa dell’Italia industriale”, s’intitolava anni fa un bel libro del sociologo Luciano Gallino. Appunto.
C’è troppa indifferenza, in Sardegna e in Italia, sulla morte annunciata della chimica. Indifferenza e persino qualcosa di peggio, perché passa l’idea che la chimica inquina (e in effetti la chimica sarda dei primi decenni ha molto inquinato, nella colpevole indifferenza dell’autorità politica) e che dunque è incompatibile con l’ambiente.
Così, tra inerzie della politica, distrazioni dell’opinione pubblica, strategie affossatrici dell’Eni e complicità del Governo (dove sono finite le promesse elettorali di Berlusconi?) Porto Torres va a picco.
 Siamo solidali, certo, coi 138 della Vinyls. Ci auguriamo che arrivino gli arabi (come la cavalleria nei film western: e speriamo non sia troppo tardi). Ma cosa ne faremo dell’industria chimica in Italia vogliamo domandarcelo? Tremonti, Scajola, Berlusconi, Cappellacci vogliono dircelo finalmente? Che razza di classe dirigente e di governo è un ceto politico che non si pone una domanda come questa? 

La Nuova Sardegna

4 Responses to Sul futuro della chimica una pericolosa indifferenza

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  2. Ugo Azzena ha detto:

    Gentile Professor Melis,
    le scrivo in relazione al suo editoriale “Sul futuro della chimica una pericolosa indifferenza”, comparso sulla Nuova Sardegna del 7 gennaio.
    Ho letto l’articolo con grande interesse, perché considero di fondamentale importanza per l’intera economia della nostra isola quanto sta avvenendo a Porto Torres e, più in generale, nell’industria chimica sarda.
    Sono professore di chimica organica presso la Facoltà di Farmacia dell’Università di Sassari e, pur non essendo un esperto di chimica industriale, vorrei sottoporle alcune considerazioni sul Petrolchimico di Porto Torres, sperando così di fornire spunti utili al suo necessario rilancio.
    Ritengo di fondamentale importanza che l’industria chimica debba avere un futuro in Sardegna, e che le relative opportunità lavorative possano essere non solo salvaguardate ma addirittura potenziate.
    Perché questo avvenga è imprescindibile una riprogettazione dell’intero settore, allo scopo di rendere questa attività compatibile con la difesa dell’ambiente e della salute pubblica, e non ridotta al puro mantenimento dei livelli occupazionali.
    La filiera dei cloro derivati, così come è attualmente concepita in Italia, può a buon titolo essere definita come una chimica stracciona, ben diversa da quella chimica fine che può portare reale ricchezza al territorio nel quale è inserita.
    Il cloruro di vinile monomero (VCM) è una delle sostanze più tossiche che si possa pensare di maneggiare, e il cloruro di vinile polimero (PVC) è uno dei primi polimeri andati in produzione industriale (parliamo degli anni venti-trenta del secolo scorso).
    Il PVC è sicuramente uno dei polimeri maggiormente prodotti al mondo, ma ha un prezzo di mercato molto basso, ed è visto con sospetto da molti consumatori. Si vedano, al riguardo, le campagne di Greenpeace o di altre organizzazioni ambientaliste per la sua messa al bando:
    http://www.greenpeace.org/international/campaigns/toxics/polyvinyl-chloride/pvc-products
    o la proposta di legge in atto nello Stato della California per vietarne l’uso durante il biennio 2013-2015:
    http://www.cawrecycles.org/issues/current_legislation/ab2505_08
    In questo caso, andando sul sito della Rappresentante del 41° distretto Julia Brownley, si può vedere come nella proposta (Bill AB 2505) il PVC sia menzionato come “commonly referred to as “poison plastic,” based on its toxicity during production, when it degrades and contaminates the ground in landfills, and in the air when superheated; ex., poisoning the air breathed by firefighters when it burns.”:
    http://democrats.assembly.ca.gov/members/a41/Legislation/2007/default.aspx
    o ancora che Toyota, Nissan e Honda progettano di eliminarlo dalle loro auto:

  3. guidomelis ha detto:

    http://www.toyota.co.jp/en/environment/recycle/design/materials.html
    Per di più, il PVC viene considerato un polimero molto difficile da riciclare, visto che i costi del riciclo sono, ad oggi, considerati paragonabili (o superiori) di quelli della produzione ex-novo. Esistono inoltre dubbi che i processi di riciclo, attualmente in fase di sperimentazione o di avvio, possano dare origine alla formazione di cloro diossine, altamente tossiche.
    Per quel che riguarda il ciclo cloro-soda di Macchiareddu, credo che valga quello che vale per gli impianti dell’Alcoa, e cioè che la loro competitività è strettamente legata all’approvvigionamento di energia a tariffe scontate. O almeno questa era la situazione di un po’ di tempo fa, e non mi risulta che la situazione sia cambiata. Bisogna poi tenere presente che, anche in questo caso, parliamo di una produzione potenzialmente ad alto impatto ambientale.
    Con questo voglio dire che bisogna che sia chiaro che parliamo di prodotti di basso valore commerciale, che prevedono un ciclo industriale potenzialmente molto pericoloso e ad alto impatto ambientale e che, per questo, risentono e risentiranno sempre di più della concorrenza di produzioni collocate in nazioni dove la mano d’opera costa poco e dove i controlli ambientali sono, addirittura, meno attenti che da noi. Le famose tigri asiatiche che lei cita nel suo articolo.
    Non per nulla ENI vende il dicloroetano (prodotto di partenza per la produzione del VCM, e anch’esso fortemente pericoloso) in India.
    Sempre per quel che riguarda il polo industriale di Porto Torres, il ciclo cumene/fenolo, è stato a lungo considerato di vitale importanza per l’economia del locale petrolchimico. Ma è pur vero che il anche il fenolo è un prodotto tossico e a basso costo tanto che, all’epoca, fu utilizzato dai nazisti per i loro progetti di stermino.
    Io credo che per salvaguardare la chimica in Sardegna non si possa prescindere da queste osservazioni, proprio perché è necessario superare le debolezze insite nel sistema.
    Così come non è giusto che l’ENI, azienda di stato, scappi dopo aver colpevolmente trascurato ricerca e innovazione industriale, altrettanto non è giusto pensare che queste siano produzioni particolarmente attraenti, da un punto di vista economico, per un qualunque imprenditore del settore.

  4. guidomelis ha detto:

    Forse arriveranno gli arabi con la loro cavalleria, come dice lei nel suo articolo, ma neanche il settimo cavalleggeri può trasformare il piombo in oro, o può consentire di abbassare la guardia sulle necessarie attenzioni cui devono essere sottoposti gli impianti in questione.
    Come chimico, maneggio quotidianamente sostanze tossiche e potenzialmente pericolose; per utilizzarle in sicurezza, in un laboratorio o in un impianto, si richiede una approfondita conoscenza dei rischi connessi, oltre alla disponibilità di strutture di lavoro idonee, sottoposte a continui controlli sulla loro efficienza. Tutto questo richiede da un lato cultura chimica, rispetto dei lavoratori e del territorio, e dall’altro investimenti economici.
    Ma attenzione, da qui a piangere il requiem della chimica il passo è lunghissimo. Ambientalisti e consumatori non chiedono che venga abbandonata la chimica o che non vengono più prodotti materiali plastici. Chiedono produzioni rispettose della salute dei lavoratori, delle popolazioni che vivono nei pressi dei siti industriali e dell’ambiente circostante, chiedono quindi ricerca, innovazione e sicurezza. Dove questo viene fatto, come ad esempio in Svizzera, in Germania, in Francia, in Spagna, ed anche in altri siti italiani, esistono e prosperano industrie chimiche in grado di creare ricchezza e benessere.
    A titolo di esempio: si è parlato tanto di una riconversione verso la chimica farmaceutica, potenzialmente in grado di produrre sia una maggiore ricchezza che quella crescita culturale di cui si sente una terribile mancanza. Perché non si cerca il coinvolgimento di aziende serie e sane, internazionalmente affermate in questo settore? Perché ma non si è visto nulla?
    Ed esiste un’altro fondamentale scenario che deve occupare l’agenda dei politici che si interessano del futuro del polo industriale di Porto Torres, oltre che degli altri poli industriali sardi: la bonifica del sito industriale.
    Sono rimasto esterrefatto dall’apprendere, sempre dalla Nuova Sardegna, che il sindaco di Porto Torres avrebbe dichiarato che queste sono un’occasione su cui non si può contare per rilanciare l’occupazione nel territorio. Dichiarazioni simili, che reputo assolutamente irresponsabili, sono state attribuite anche ad altri esponenti politici e sindacali. Spero non corrispondano a realtà.
    Come chimico, e come sardo, sono invece convinto che si tratti di un’opera non solo necessaria per l’ambiente e la salute pubblica, ma anche di un’occasione dalla quale è possibile (necessario) ricavare occupazione e che può (deve) generare competenze che possono andare molto al di là della loro applicazione sul nostro territorio.
    Senza nascondere che la bonifica di una tale sito (per non parlare di siti forse in peggiori condizioni, come Portovesme) richiederà un impegno enorme come mezzi e come tempi, è opportuno che questa occasione non si trasformi nell’ennesima scorribanda di qualche ditta estranea al nostro territorio che, se tutto va bene, svolgerà il suo compito arruolando sul nostro territorio solo la bassa manovalanza, pagherà le tasse in altre regioni, e sparirà nel nulla. Il passato ci insegna che questo rischio è reale, e non prevenirlo sarebbe estremamente stupido, per non dire di peggio.
    Quando parliamo di bonifiche efficaci, non intendiamo certo un’operazione semplicistica, come il passare con le ruspe per rimuovere un po’ di spazzatura. Si tratta di opere estremamente complesse, da condurre con mezzi enormi, serie competenze scientifiche (chimiche, geologiche, ingegneristiche) e richiederà interventi prolungati nel tempo. Provi a digitare bonifiche siti industriali su un qualunque motore di ricerca e si farà un’idea di ciò di cui si parla. Questa può e deve essere l’occasione per far nascere sul nostro territorio aziende che potranno offrire sul mercato servizi fondamentali per tutte le nazioni civili.
    Un simile processo virtuoso può essere attivato solo se si esige che questa occasione di sviluppo si radichi realmente nel territorio, pretendendo l’arruolamento, il coinvolgimento e, ove necessario, l’eventuale futura formazione di mano d’opera, tecnici, professionisti che siano realmente motivati a cogliere questa come un’occasione per rilanciare lo sviluppo economico e culturale del Nord Sardegna.
    Chi ha portato al dissesto economico l’industria chimica nel nostro territorio, per mancanza di investimenti e di reali competenze industriale, deve ripagare efficacemente il nostro territorio, e non trarre dalle bonifiche un’occasione di autofinanziamento.
    Le faccio i miei migliori auguri di buon lavoro.
    Cordiali saluti

    Ugo Azzena
    Dipartimento di Chimica, Università di Sassari

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